14. Il Capodanno di Ugo – Prima parte

28 12 2013

parigi-capodanno-4Sono sull’aereo, in partenza dall’aeroporto del Capoluogo. Volo diretto per Parigi. Mi aspetta un capodanno sotto il cielo francese, in compagnia della mia amica di penna Jackie. Non appena ha saputo del regalo dei Nonni non ha perso tempo e ha subito organizzato la mia vacanza. Sarà la mia guida, ha detto. Credo che i maschi italiani, anche i più cessi, destino sempre un certo interesse nelle donne francesi. Lo so, lo so, sono stupidi stereotipi! Il comandante informa che siamo pronti al decollo. Le hostess e gli steward si accertano che tutti abbiano allacciato le cinture. Si parte. L’aereo comincia a muoversi. Io mi sento mancare. Mi piace viaggiare ma non mi piace l’aereo. Io opterei per il teletrasporto, se esistesse. Pazienza per il rischio di smaterializzarsi. Io sono già smaterializzato. Adesso più che mai. L’aereo è arrivato sulla pista come avrebbe fatto una semplice auto ma muovendosi su tre ruote. Adesso prende la rincorsa. Comincia ad avanzare, va sempre più veloce. E’ davvero incredibile che nel giro di un paio di secondi saremo tutti per aria col vuoto che ci preme sullo stomaco. L’aereo si stacca da terra, voliamo verso il cielo. Io sono vicino a uno dei motori e sento tanto rumore. Mantengo gli occhi chiusi e le mani serrate sui braccioli ancora per un po’. E mantengo anche il respiro. Prima sceglievo sempre  il posto vicino al finestrino perché guardare dall’oblò mi regalava una certa sicurezza. Ora scelgo il posto sul corridoio dopo aver letto i risultati di una statistica effettuata sui sopravvissuti ai disastri aerei. Pare che la maggior parte di loro avesse il posto sul corridoio e abbiano potuto raggiungere più agevolmente le uscite di sicurezza. Tutte stronzate! Adesso sì che dovrei essere tranquillo. So pure dove sono le uscite di emergenza e so che sotto di me c’è un utilissimo giubbino gonfiabile. Meglio non pensarci perché è spaventoso. Quasi come la mia situazione. Penso che al mio ritorno sull’isola di Lost proporrò alle compagnie aeree l’uso del paracadute della Dharma Initiative invece che giubbini gonfiabili. Almeno se poi tiri il cordino una speranza di salvarti ce l’hai.

Usciamo dalla bolla spazio temporale della mia regione. Non penso al mio passato ora. Non penso a quel buco di appartamento, non penso a Briciola, non penso al libro che mi ha regalato Papà. Ora penso solo a Parigi. Penso alla Ville Lumière addobbata a festa. E’ la mia prima volta, non ci sono mai stato. Jacqueline, o Jackie come la chiamo io, mi aspetta.

Inganno il tempo del viaggio leggendo Chéri, il romanzo della scrittrice Colette. Leggo della passione scandalosa e impossibile tra il giovane Chéri e la più matura Léa. Chiudo gli occhi e immagino di incontrarli per le strade di Parigi.

Ora siamo quasi arrivati e il comandante ci avvisa di riallacciare le cinture perché è imminente l’atterraggio. L’ altro momento critico del volo che detesto perché ne ho paura. Meglio davvero correre il rischio di essere smaterializzati, dico io. Penso a quanti incidenti aerei siano avvenuti a volo quasi finito perché magari non si è aperto il carrello delle ruote o per una manovra sbagliata del pilota. E’ un momento delicato. Se il destino vuole tra un po’ saremo di nuovo tutti con i piedi per terra ed il naso all’insù a guardare quel cielo lontano dove fino a qualche minuto prima stavamo navigando. Se no, male andando, staremo bruciando tra le fiamme dell’Inferno! L’aereo si abbassa, vola in mezzo ai palazzi. Vedo distintamente case, tetti, finestre, porte, auto, persone. Tutto questo sembra quasi entrare nell’aereo. Ecco poi il rumore metallico del carrello-ruote che si apre. L’aereo pare rimbalzare su quella pista, più e più volte. Io ho gli occhi chiusi, le mani serrate. Spero che se esiste un Dio allora non desideri un incidente proprio adesso. Magari al ritorno. Ma non ora. Adesso devo godermi almeno Parigi e conoscere Jacqueline che io chiamo Jackie. Magari al ritorno, ma non ora. L’aereo comincia una tremenda frenata, le ruote stridono sull’asfalto. Poi si ferma di botto e mi ritrovo con la faccia sul sedile che ho di fronte. E’ finita. Siamo arrivati! Che la mia vacanza abbia finalmente inizio!

L’aeroporto Charles de Gaulle è un grande aeroporto. Sono in attesa del mio bagaglio che ancora non si vede. Mi sento in un’altra dimensione. Sono lontano da casa. Lontano dalle mie non scelte. Momentaneamente sono un uomo nuovo. Diverso. Libero.

Non conosco l’aeroporto e non so bene di preciso dove mi aspetti Jackie. Sa che arrivo a quest’ora e viene a prendermi. Ma non so dove. Comunque la riconoscerò. Spero che le foto che mi ha mandato ritraggano proprio lei e non una sua amica.

La mia valigia verde speranza ha fatto capolino sul nastro trasportatore. Mi sporgo per prenderla e perdo l’equilibrio. Cado sul nastro trasportatore proprio sopra la valigia. Tutta quella gente attorno  ride di me  un po’ in italiano e un po’ in francese mentre sono a gambe all’aria sul nastro e vengo trasportato con la valigia inesorabilmente dentro il tunnel. Non riesco a muovermi e la valigia pesa una tonnellata. Colpa mia che mi sono portato tutti i maglioni pesanti che ho perché ho paura che faccia freddo a Parigi. Quelle facce sconosciute mi guardano come un bagaglio non loro e ridono. Il tunnel è vicino. Sto per essere inghiottito. Sta per avvenire il peggio quando una mano amica mi afferra al volo e mi salva in extremis.  La riconosco, è proprio Jackie. Una sua cara amica lavora all’aeroporto e l’ha fatta sgattaiolare dentro per venire a darmi il bienvenue.  Che fortuna! Ora è tutto un comment ça va, comment ça vas tu e tanti bisous.

L’auto di Jackie è una piccola utilitaria gialla. Lasciamo l’aeroporto e ci immettiamo sull’autostrada. Lei parla mentre io mi guardo attorno. Capisco la metà di quello che dice. Il paesaggio ai lati dell’autostrada non è molto diverso da quello delle nostre autostrade italiane. Prati, tralicci, corsi d’acqua, capannoni, industrie. Poi palazzoni di periferia, grandi slarghi, passaggi a livello. In lontananza vedo qualcosa che svetta su tutto il resto e riflette la luce del sole. Jackie dice che quella è la Torre Eiffel ma io non ci credo. Quell’ammasso di ferraglia grigio che vedo laggiù non può essere la Torre Eiffel. Se quella è la Torre Eiffel allora sono già deluso. Non è come la immaginavo.

Jackie corre. Sorpassa bus, sorpassa camion, sorpassa auto e corre. Corre e scala le marce della sua utilitaria gialla che non ho capito ancora che modello sia.

Jackie ha una decina di anni più di me e non ha un fidanzato. Ha i cappelli corvini, lunghi e grossi. I suoi occhi cerulei si confondono col colore grigio del cielo di Parigi. Indossa uno scamiciato nero con una ampia scollatura dalla quale si intravede il seno – che è tanto grosso- ed una cintura marrone all’altezza dei fianchi. Ha due tacchi vertiginosi che però non le impediscono di guidare. Alle orecchie pendono due orecchini con la bandiera italiana. Li ha messi in mio onore, suppongo. So che lavora in un piccolo albergo vicino alla Torre. Non vive più con i genitori ma si è trasferita in una piccola mansarda parigina che sta a poche centinaia di metri dal piccolo albergo. Jackie mi dice che stiamo andando proprio all’albergo. Oggi si è presa una giornata di vacanza ma deve passare un attimo per comunicare al suo sostituto alla Reception alcune precisazioni sui loro nuovi clienti in arrivo nella serata. All’improvviso frena e inchioda. Se avessi avuto la dentiera mi sarebbe certo volata via. Mi dice che siamo arrivati. L’alberghetto è una costruzione antica a più piani. All’entrata vedo due alberi di natale addobbati con palline bianche, rosse e blu, in pieno gusto nazionalistico. Jackie entra e mi fa cenno di seguirla. Parla con un giovane uomo alla reception. Parlano velocemente, non capisco una sola parola. English, please, mi viene da dire. Ma non stanno parlando con me. Dopo una discussione animata, Jackie si ricorda di me e mi presenta al suo collega. Il collega si chiama Jean-Paul. Come Jean-Paul Belmondo mi dice lui e sottolinea Belmondo perché è una parola italiana. Forse crede che così ci capiamo meglio. Ma io se parlano piano li capisco, faccio presente. Jean-Paul ha due baffetti rossicci che sembrano posticci. Decido che per me Jean-Paul sarà Baffetti. Baffetti mi dice che Jackie è una donna molto dolce, simpatica, gentile e molto generosa. Me lo può assicurare. Baffetti mi dice ancora di godermi questa mia settimana parigina. Dice che sarà divertente ma anche stancante e che alla fine di sicuro non vedrò l’ora di tornare a casa perché le vacanze sono sempre così. Alla fine provi nostalgia.

Jackie decide che le mie valigie per adesso le lasciamo alla reception dell’albergo. Baffetti le terrà d’occhio. Infatti è quasi ora di pranzo e non passeremo alla sua mansarda che per sera. Io avrei voluto rinfrescarmi un po’ prima di uscire. Ora non ho fame. Ma quello che voglio fare io non conta. Conta che è quasi ora di pranzo e bisogna subito andare a mangiare se no non troviamo più nulla. Guardo l’orologio e per me le undici e mezza sono presto. Per Jackie e Baffetti invece le undici e mezza sono tardi.

La Brasserie preferita di Jackie non è lontana dall’albergo. Solo qualche minuto a piedi. Sono emozionato. Respiro finalmente l’aria frizzante di Parigi. L’arte è intorno a me. I cafè letterari e degli artisti sono attorno a me. I parigini con le baguettes sono attorno a me. Tutto scintilla. Jackie mi guarda e dice che sono carino ma ho un’aria buffa. L’aria buffa non mi è nuova. Ma merci beaucoup per il carino. Anche lei è carina con quei capelli corvini e quelle grandi tette. Ora poi ha gli occhiali da sole e non si vedono quegli occhi cerulei, grigi come il cielo sopra Parigi.

Ci sediamo a un tavolo. Chiedo indicazioni per il bagno e lascio ordinare a Jackie. Lei dice di fidarsi. Dice che conosce il menù e sa il fatto suo. Ok Jackie, mi fido ma ora mi scappa la pipì. Il bagno è piccolo ma pulito. Finalmente posso rinfrescarmi un po’. Sono ancora un po’ stordito dal volo. Acqua fresca è quel che mi ci vuole. Mi soffio il naso, mi tolgo una cispa dall’occhio. Con la mano mi pettino i capelli. Torno al tavolo. Torno e scopro che al tavolo adesso siamo in quattro. Il cameriere nel mentre ha unito tutti i tavolini in un’unica bancata. Jackie dice che si usa così. Si usa unire i tavolini per far socializzare i clienti mentre mangiano. Io mentre mangio farei anche a meno di socializzare con sconosciuti. Io sono lì per socializzare con Jackie. Voglio vedere Parigi ma soprattutto in questo momento sono qui per riempire lo stomaco senza ingurgitare più aria del necessario. Ma i nostri vicini di tovagliolo stanno al gioco del cameriere. Scopro che il ragazzo nero di fianco a me è un americano della Louisiana mentre la donna bianca e slavata seduta di fronte a lui è la sua ragazza. Mi parla in americano e lo capisco benissimo. Diventiamo amiconi. Lui e la ragazza sono in Europa per un viaggio di due mesi. Sono appena arrivati in Francia, proprio come me. L’Italia è la loro prossima meta. Mi chiedono qualche consiglio. Sono due simpaticoni. Arriva l’entrèe. Per me Jackie ha ordinato un passato di cavolo e verdure varie. Anche gli americani hanno preso lo stesso. E’ il meglio. Ci guardiamo schifati mentre lo sorseggiamo. Jackie lo adora invece. Niente primo piatto, si va subito al secondo . Ovviamente anatra arrosto e paté di fegato d’oca. L’anatra è buona ma è poca. Il paté invece è molto e lo lascio. Jackie dice che non lo si può lasciare perché se no si offendono. E’ una cosa prelibata, il paté. Così si sacrifica e lo ingurgita tutto lei. Ci alziamo e saluto les américaines. Dopo tutto è stato un piacere conoscerli. E provo un po’ di dispiacere a lasciarli andare via così, senza neanche scambiarci un recapito o il contatto facebook. Un po’ meno piacevole invece è stato il pranzo. Ma Jackie non ne ha colpa. Jackie è gentile con me e mi ospita nella sua mansarda. Quindi offro io e usciamo dalla Brasserie. Ora però  sì che ho fame! 

fine della prima parte








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